Da Repubblica
Gli intellettuali e la guerra: Moravia aveva ragione
Non so più quanti articoli, saggi, interventi ho letto; tutti orientati nella stessa direzione: com’è che gli intellettuali non parlano? Com’è che hanno da dire così poco nei confronti della guerra?
E certo, se dimentichiamo così facilmente le cose che «gli intellettuali» hanno detto, parlando esplicitamente, fino a ieri, facciamo presto a dire oggi: gli intellettuali non parlano. In realtà hanno già parlato. Non su problemi di scelte pratiche: che fare, adesso, contro Saddam Hussein?
Di fronte a scelte di natura pratica, l’intellettuale ne sa esattamente quanto gli altri. Posto di fronte al problema se prendere il tram o se cercare un taxi, visto che sta piovendo, reagisce esattamente come tutti. Sa dire invece qualcosa in termini più generali o — almeno in apparenza — astratti.
Prendiamo il caso di Alberto Moravia. È morto poche settimane fa. Nei suoi ultimi anni ha ripetutamente detto e scritto che a questo punto della sua evoluzione tecnologica, l’umanità ha un solo problema: fare della guerra un tabù. Una cosa assolutamente proibita. Come già fece, a suo tempo (un tempo incommensurabilmente lontano) per l’incesto.
Come la valuteremo questa convinzione di Moravia di cui nessuno (ma proprio nessuno) pare oggi si ricordi? La valuteremo per quello che è. È l’idea più astratta, più romantica, più utopica che si possa avere sulla guerra. Al tempo stesso è l’unica realistica, paradossalmente.
E valga il vero. Questo tipo di divieto, di «tabù», come Moravia si esprimeva (non so nemmeno con quanta precisione antropologica) vale solo se è perentorio ed assoluto, se non tollera eccezioni.
Per la seguente semplicissima ragione. Finché si dirà che la guerra si può fare, per qualche (giusta) ragione, una qualche (giusta) ragione per farla la si troverà sempre.
Aggiungo una cosa spiacevole. Una giusta ragione la troveremo noi, e la troveranno pure — se non l’hanno già trovata — anche i nostri nemici. Certo, le nostre ragioni sono veramente giuste, mentre quelle del nostro nemico sono false e posticce. Ma qui devo aggiungere una cosa ancora più spiacevole: il nostro nemico, chiunque egli sia, è profondamente convinto della stessissima cosa, in questo stesso momento.
Tutta la tematica della guerra «giusta», nella sua innegabile nobiltà, presenta questo piccolo difetto: si presta ad essere adoprata — oggi da me, domani da te — come una ricorrente giustificazione della guerra: eterna. Se la guerra atomica non è scoppiata, in questo ultimo mezzo secolo, è perché la si è «tabuizzata» in modo perentorio ed assoluto. Non si deve fare, altrimenti saltiamo tutti per aria. Così non la si è fatta, per fortuna, e siamo ancora (ma non sappiamo fino a quando) con i piedi per terra.
Due obiezioni, a questo punto. Me le faccio da me: perché sono due obiezioni estremamente serie. La prima suona così: tu puoi mettere al bando la guerra quanto ti pare, ma se poi c’è un cattivo da qualche parte, che invece vuol farla? Risposta: se c’è un cattivo, un demagogo sanguinario, un bandito come Saddam Hussein che vuole comunque farla, tu devi fermarlo. Ci mancherebbe. Ma siamo esattamente al punto di prima. Se tu sai dentro di te che puoi fermarlo con una guerra (giusta, ovviamente) alla fine è alla guerra che ricorrerai, per tentare di fermarlo. E sarà dura.
Se tu sai invece che alla guerra non vuoi, non puoi ricorrere ti inventerai per tempo (per tempo) un altro modo di fermarlo. Ricorrendo per esempio ad un embargo serio, serissimo. Non si può? È difficile? Mi meraviglio. Non riesco a convincermi che a questo punto dello sviluppo tecnologico, con i satelliti che ti guardano nelle tasche, non si riesca a stringere d’assedio un Paese piccolo, in fondo. Di fronte all’universo intero coalizzato contro.
Seconda obiezione: la guerra è una tentazione fatale, una vertigine ricorrente, una componente permanente del comportamento umano. E chi lo nega? Però ci sono state altre attrazioni fatali (e funeste), altri comportamenti che sembravano irrimediabilmente naturali. Tuttavia, ce ne siamo liberati. L’uomo altro non è — è stato autorevolmente detto — che un animale feroce in fase di addomesticamento.
Questo processo di addomesticamento è doloroso, faticoso. Dura da moltissimo tempo. Ma qualche risultato non secondario è stato pur ottenuto.
C’è stato un tempo — di lunghezza incommensurabile — in cui l’umanità ha ritenuto «naturale» praticare i sacrifici umani. Agamennone che sacrifica la figlia Ifigenia, prima di partire per Troia. Abramo che si dichiara pronto a sacrificare suo figlio Isacco, perché — così gli sembra — gliel’ha ordinato il Signore.
L’umanità ha fatto uno sforzo gigantesco per liberarsi dalla barbarica pratica dei sacrifici umani. Un gigantesco sforzo culturale (ecco un caso in cui questa parola non è sprecata), al quale appartengono la Bibbia e la Tragedia Greca. Sono state scritte e lette «anche» per questo. Lo sapeva e lo diceva già Goethe. Ma l’hanno capito e fatto capire, in tempi moderni, anche altri.
Se c’è riuscita, è perché ha imposto (si è imposta) un divieto assoluto. Sacrifici umani, non se ne fanno. Non ha detto: sì però, ma in qualche caso… Se così avesse detto staremmo lì a fare sacrifici umani ancora adesso, prima di partire in vacanza per Troia e per le coste dell’Anatolia.
Ancora: per un tempo incredibilmente lungo l’umanità ha fermamente ritenuto che non si potesse costruire un ponte (supremo oltraggio alla natura: perché unisce ciò che la natura ha diviso) senza seppellire sotto le fondamenta almeno un bel bambino: vivo. Pare che questa brutta abitudine sia durata, da qualche parte, fino al Sette-Ottocento.
Poi a furia di pensarci (e di camminarci) sopra, l’umanità si è convinta che i ponti possono reggere anche senza seppellirci sotto nessun bambino. Eppure pareva così naturale, prima.
Nel caso dell’incesto, che tanto interessava Moravia, si tratta di una pratica che non ha esaurito il suo fascino nemmeno oggi (come la letteratura abbondantemente dimostra). In fondo, cosa c’è di più naturale (e di più comodo) che andare a letto con la propria madre, o con il proprio padre, o con la propria avvenente sorella?
Ma l’umanità ha capito che avrebbe finito per soffocare nelle spire dell’endogamia, non avrebbe respirato, non avrebbe intrecciato salutari rapporti di scambio, se non avesse respinto quella tentazione: fatale e funerea. L’ha fatto investendola di un divieto — anche qui — assoluto. Non ha detto: l’incesto è proibito, certo. Però, se la mamma è particolarmente bella, se il figlio è molto malinconico… Se così avesse detto, staremmo ancora qui impastoiati in rapporti incestuosi e lugubri. Tutti, tutto il santo giorno.
Infine, per andare ad un esempio più piccolo e più vicino. Abbiamo sopportato ed onorato per alcuni secoli la pratica del duello. Una pratica nobile e cavalleresca, stupida ed ignobile. Una pratica che ha consentito ad un cretino, ma bravo spadaccino, di far fuori il grande poeta russo Puskin. Ad un altro cretino, ma provetto spadaccino, di far fuori il grande poeta russo Lermontov. Ad un terzo cretino, ma ottimo spadaccino, di tagliare la carotide in duello a quel generoso deputato democratico che era Felice Cavallotti. Eppure anche il duello ci è sembrato, per secoli, naturale e necessario. Poi ce ne siamo liberati. Proibendolo in modo assoluto e perentorio.
Ciò che non ha impedito ad alcuni «opinionisti» allegri di esprimere anche recentissimamente la loro nostalgia: com’era bello quando si duellava. Ma che ci si può fare. La madre degli spadaccini cretini è sempre incinta.
La guerra è certamente un problema più complesso del duello, dell’incesto, dei sacrifici umani consumati sopra o sotto i ponti. Tant’è vero che è stata anche apertamente, spudoratamente esaltata, fra Otto e Novecento, come un momento (nientedimeno) di epifania del sacro. Ne dà testimonianza un volumetto di Roger Caillois («La vertigine della guerra») appena pubblicato dalle Edizioni Lavoro, con introduzione di Sergio Cotta (pagg. 106, lire 15.000).
È vero. La guerra esercita un suo fascino perverso. Non tanto perché propizia un mitico ritorno al sacro («non c’è niente di sacro», diceva il vecchio e saggio Hemingway, dopo l’esperienza della Prima Guerra Mondiale). Quanto perché è — riconosciamolo — una gigantesca licenza di uccidere. E di farsi uccidere. Utilizzando la quale ci convinciamo di essere noi a dare la morte, noi ad accettare di subirla. Una pia illusione. La morte è nel nostro destino, comunque. Non sarà la pratica della guerra ad esorcizzarla.
Inoltre ci sono altre cose, della guerra moderna che abbiamo capito; e che Moravia aveva certamente presenti. Non è mai un’operazione chirurgica, come si è detto ripetutamente (spesso imprudentemente) in questi giorni.
L’operazione chirurgica rimuove tutto il male che può, e non ne fa altro. La guerra rimuove — quando lo rimuove — il male che c’è, ma scatena le metastasi. Forse gli accadimenti di questi giorni già lo confermano.
Non so proprio come Moravia si sarebbe atteggiato, nelle circostanze odierne. Credo che avrebbe avuto le difficoltà e le incertezze di tutti: nelle scelte pratiche immediate. Credo però che avrebbe insistito nella sua idea. Tutto questo accade perché la guerra non è stata ancora «tabuizzata», non è ancora stata proibita del tutto. O mettiamo la guerra al bando per sempre, o saremo costretti a farla sempre: e sempre per qualche «giusta» ragione.
L’idea più romantica, utopica, astratta che si possa avere oggi. L’avrebbe riconosciuto lui stesso. Al tempo stesso — avrebbe preteso che gli riconoscessimo — l’unica realistica.
Beniamino Placido