Da l’Espresso
La ricchezza di questa terra è una maledizione che da sempre attira i ladri di tutto il mondo. L’oro del Congo vola via dalle miniere in elicottero, passa la frontiera di soppiatto, su piccole barche lungo i fiumi, in camion clandestini, o nascosto nelle tasche dei contrabbandieri. Qualcuno se lo porta lontano e i congolesi vivono in povertà. Da sempre, fin dai tempi di Leopoldo II re del Belgio che ne fece un possedimento da sfruttare a titolo personale.
È un saccheggio silenzioso che va avanti da decenni e riguarda tutte le risorse naturali di cui il Paese è ricchissimo: cobalto, rame, uranio, oro e diamanti, ma anche cassiterite e coltan.
Quella del Congo è una delle più grandi frodi del mondo: “Un vero e proprio scandalo geologico”, lo definisce Eric Kajembe, direttore dell’Osservatorio per la governance e la pace di Bukavu, capitale del Sud Kivu, nell’estremo est del Paese, la zona più martoriata dal conflitto e tra le più ricche di minerali. Un duplice saccheggio, il primo ufficiale, ad opera delle multinazionali con l’appoggio del governo di Kinshasa, il secondo di frodo, ad opera di migliaia di persone, minatori e contrabbandieri. Una ricchezza immensa i cui beneficiari ultimi sono sempre gli stessi: noi occidentali, o meglio, la parte ricca della popolazione mondiale, che utilizza questi metalli preziosi ottenuti a basso costo per fare profitti altissimi. Nel frattempo il Congo resta una delle nazioni più povere e sottosviluppate del pianeta.
Nell’est del Paese, nel sud e nord Kivu, il fenomeno è alla sua massima espressione, perché sono ancora operative diverse bande armate, e perché ci sono i confini con Rwanda, Burundi e Uganda, destinazione della maggior parte dei minerali esportati illegalmente. “Questi Paesi hanno dati di export molto superiori alle reali risorse minerarie, grazie al contrabbando che aumenta di mese in mese”, spiega Kajembe.
In Kivu si estraggono soprattutto oro, cassiterite, da cui si ricava stagno, e coltan, da cui si estrae il tantalio che è una componente essenziale per la produzione delle nuove tecnologie, dai telefoni cellulari ai computer, dai videogiochi ai dvd: stando alle stime, il Congo possiederebbe tra il 64 e l’80 per cento delle riserve mondiali di coltan. Una fonte inesauribile di guadagno, se non fosse che questo viene tutto portato in Rwanda.
Dai Paesi vicini i minerali illegali si diramano tramite gli acquirenti internazionali verso le aziende di mezzo mondo: come ad esempio il gruppo Traxys, che commercia in metalli e ha base in Lussemburgo o la belga Trademet. Intermediari che vendono alle multinazionali i minerali, riuscendo così a “ripulirli”. Quindi tutti, direttamente o indirettamente, comprando da altri i minerali o estraendoli in prima persona, mettono le mani sui beni del Congo, a cominciare da grandi potenze come Stati Uniti e Canada, presenti con decine di compagnie. O l’Inghilterra, che ha in campo società con base alle Isole Vergini come la Garreto Holding Ltd e la Sandro Resources Ltd. Ma c’è anche il Belgio, ex potenza coloniale, che però sta perdendo quote di mercato, e c’è la Malesia, con la Malaysia Smelting Corp, la terza compagnia al mondo nella produzione di stagno, che importa la cassiterite dal nord Kivu.
Poi sono arrivate l’India e soprattutto la Cina, che nel 2009 ha chiuso con il governo del presidente Kabila un super contratto per il quale offre 6 miliardi di investimenti in infrastrutture in cambio di concessioni per 10 milioni di tonnellate di rame e 400 mila di cobalto nello Stato del Katanga. L’accordo cinese, senza precedenti per la portata, ha sollevato polemiche a non finire riportando l’attenzione su uno dei problemi centrali dell’affaire minerario in Congo: per molti infatti il governo di Kabila starebbe svendendo le ricchezze in cambio di guadagni troppo miseri per la popolazione, che resta poverissima. I soldi, a causa della corruzione, si fermerebbero alla cerchia del potere di Kinshasa.
Janvier Kilosho studia da anni la questione mineraria per l’università cattolica di Bukavu. Dice: “In futuro, visto l’enorme numero di concessioni rilasciate dal nostro governo, la maggior parte della produzione sarà industriale. Attualmente però in maggioranza i minerali sono ancora estratti artigianalmente, vale a dire a mano, e vengono venduti di contrabbando. A guadagnare di più in questo gioco sono i paesi vicini, soprattutto il Rwanda, dove finisce quasi tutto il coltan e gran parte della cassiterite del Kivu, ma anche il Burundi e l’Uganda, che si prendono l’oro: poi basta vedere chi importa i minerali da questi Paesi, e la storia ci dice che gli Stati Uniti ad esempio sono in prima linea tra gli acquirenti del coltan ruandese.
Del resto gli Usa sono dei ferrei alleati del presidente Paul Kagame, che è in ottimi rapporti con il presidente Kabila”.
Paradosso vuole che, a causa di una serie di ipocrisie, mentre tutti si arricchiscono alle spalle del Congo, il settore minerario nel Paese sia in crisi. Spiega Eric Kajembe: “Una legge statunitense, il Dodd-Frank Act del luglio 2010, sulla tracciabilità dei minerali, ha creato un embargo di fatto su coltan e cassiterite. Dopo tanti anni di guerra, i nostri minerali hanno iniziato ad essere considerati sporchi di sangue, perché i gruppi armati della regione li hanno utilizzati per finanziarsi. Adesso in molti non li vogliono più acquistare.
Aziende importanti come la Apple e la Sony si sono ritirate dal mercato. Solo i cinesi li comprano ancora, ma hanno fatto crollare i prezzi”. Per Kajembe quello americano è stato solo un ripulirsi la coscienza senza effetti pratici se non quello di mettere in difficoltà l’economia locale: “Per venire incontro a questa legge il presidente Kabila ha deciso lo scorso anno di bloccare del tutto la produzione in Kivu. Ma anche questa è un’ipocrisia, perché in Congo 12 milioni di persone vivono sfruttando le miniere quindi l’estrazione continua come prima, solo che adesso a controllare le miniere è soprattutto l’esercito regolare, che non è pagato, insieme alle milizie ruandesi ancora presenti sul nostro territorio. Il divieto di produrre ha solo aumentato il contrabbando”.
Con il coltan e la cassiterite inavvicinabili, perché i militari non fanno entrare nelle miniere neanche i commercianti più anziani, l’unica catena che si può ricostruire è quella dell’oro. Il saccheggio è fatto porta a porta, grammo per grammo. Il 90 per cento dell’oro di questa regione viene ancora estratto a mano, da minatori che lavorano 12 ore al giorno con i piedi nell’acqua o scavano buchi nella terra con la pala, aiutati dai bambini. I minatori sono i perdenti assoluti della catena, quelli che lavorano di più e guadagnano meno. Si calcola per loro un guadagno medio di 9 dollari al giorno. Il 99 per cento di questo oro passa nei Paesi limitrofi di contrabbando. A Bukavu c’è un solo rivenditore autorizzato a vendere agli acquirenti internazionali. Si chiama Shamamba, e dichiara di esportare 7 chili al mese. Ma la regione ne produce, secondo calcoli accurati fatti dalla società civile, almeno 500 al mese.
E le cose stanno cambiando addirittura in peggio. Il futuro è dell’industria mineraria, ovvero del saccheggio autorizzato e su larga scala sempre ad opera degli stessi Paesi. Da qualche anno sono arrivate le multinazionali. Il governo del presidente Kabila ha concluso moltissimi contratti di concessione a compagnie che vengono da Canada, Stati Uniti, Cina, India, Malesia, Inghilterra e Belgio.
Se in tutto il Paese le multinazionali sono decine, in sud Kivu invece una sola grande compagnia internazionale ha avuto la concessione per quasi tutto l’oro: è la canadese Banro, che ha fuso il suo primo lingotto lo scorso 5 novembre nel sito di Luhwindja, alla presenza di Kabila. A Bukavu la Banro è sulla bocca di tutti, e il suo ruolo è controverso. Nei suoi blindatissimi uffici il vicepresidente sudafricano della società, Koos Nel, parla con la prospettiva del grande benefattore, che porta investimenti e compensazione sociale per i villaggi danneggiati dall’arrivo della miniera. Gli abitanti di Luhwindja invece parlano di Banro come di un mostro famelico, che ha rovinato la vita dei villaggi senza dare quasi nulla in cambio. Il vicepresidente di Banro si difende invece: “Lo sfruttamento artigianale delle miniere non ha prospettive perché non porta benessere, solo l’industria mineraria è in grado di portare lo sviluppo e per questo il presidente Kabila ha scelto la via delle grandi concessioni”. Nella sola miniera di Luhwindja la Banro dovrebbe produrre 200 chili d’oro al mese, 2.400 all’anno. E presto avrà diverse altre miniere operative. Un grammo d’oro costa 40 euro, dunque la società incasserà 96 milioni di euro all’anno. Nel assicura anche che la società investirà almeno 300 mila dollari in progetti per la popolazione: nemmeno lo 0,25 per cento del fatturato. Come dice un quadro della società che per paura di ripercussioni preferisce restare anonimo, “finora Banro per la comunità, a parte aver costruito un paio di scuole, non ha fatto praticamente niente”.
La società canadese sembra avere le carte in regola e ogni volta che ai dirigenti si fa notare un’ingiustizia questi si appellano al rispetto di una legge ottenuta col benestare del presidente. Dice ancora Janvier Kilosho: “Quello che c’è scritto davvero sul contratto di Banro nessuno lo sa. Ma il problema è del governo, i nostri dirigenti si prendono tutto per loro senza redistribuire niente in servizi”. Mentre per Eric Kajembe “gli investimenti stranieri non sarebbero negativi se venissero pubblicati i dettagli degli accordi e se fossero ascoltate anche le esigenze della comunità. Invece le concessioni si traducono in un affare privato tra le multinazionali e il governo. E questa complicità manda in fumo le nostre risorse, non rinnovabili, senza che il Congo ottenga niente”.
Mathilde Muhindo Mwamini è un’autorità della società civile a Bukavu: “Ho visto la mappa delle concessioni di Banro e sono rimasta sconvolta. Hanno preso la concessione per montagne intere di oro, tutte per loro. E in cambio cosa ci danno? Lo sanno che non abbiamo scuole, strade, ospedali, acqua potabile e luce elettrica?”. Insomma, viste da Bukavu le grandi compagnie internazionali prendono una luce sinistra. Per i congolesi, chiunque abbia chiuso in questi anni contratti minerari miliardari con il governo di Kinshasa ha stretto un patto con il diavolo. A braccetto con il diavolo camminano quasi tutti i Paesi più potenti del mondo.
Jacopo Arbarello