Da Popoli
Nella regione orientale della Repubblica Democratica del Congo, Didier de Failly, gesuita belga da oltre 25 anni a Bukavu, combatte contro il contrabbando dei minerali preziosi, causa principale del conflitto tra esercito di Kinshasa e ribelli sostenuti dal Ruanda. Un’attività che lo ha portato a confrontarsi con i massimi esperti a livello internazionale, ma che lo ha esposto anche a minacce.
È stato tra i primi a studiare in profondità il fenomeno, tanto da pubblicare un’analisi già nel 2001: padre Didier de Failly, gesuita belga da oltre 25 anni a Bukavu, capoluogo del Sud Kivu, ha consacrato gli ultimi lustri ad approfondire le dinamiche dello sfruttamento minerario nella regione e a individuare mezzi efficaci per contrastarne il commercio illegale, tra le principali cause della guerra. È il direttore del Bureau d’Etudes Scientifiques et Tecniques (Best) e della Maison des mines du Kivu. Collabora con vari network internazionali, come la Public-Private Alliance for Responsible Minerals Trade e la Extractive Industries Transparency Initiative. La sua voce è ascoltata ovunque e i suoi contributi scritti sono pietre miliari nel percorso che sta portando alla certificazione dei minerali provenienti da zone di conflitto.
Lo incontriamo nel suo ufficio nel collegio dei gesuiti Alfajiri a Bukavu. Nel nostro colloquio si addentra nei meandri delle normative internazionali che oggi cercano di regolare il commercio dei minerali «insanguinati», mettendone in evidenza i limiti. «È necessario – osserva – che il denaro proveniente dalla vendita delle risorse minerarie torni alla gente, per migliorarne le condizioni di vita. La società civile del Sud Kivu si sta professionalizzando nei suoi interventi, va sostenuta e incoraggiata, ma non è semplice acquisire competenza nel settore dell’estrazione artigianale dei minerali».
La maggior parte degli studi disponibili oggi partono infatti dal presupposto che in Congo esista una catena mineraria industriale e non artigianale, come è in realtà. È questo uno dei maggiori problemi evidenziati dal gesuita. «In un contesto simile – osserva -, garantire la tracciabilità non è affatto semplice, né è semplice verificare la filiera o evitare imbrogli, se il tutto consiste solo nell’apporre un’etichetta sul sacco di coltan, tungsteno o cassiterite. Alterare o sostituire un cartellino è un gioco da ragazzi. Inoltre, non essendoci concorrenza (sono ancora in pochi a etichettare i minerali), il prezzo della materia prima resta basso. A rimetterci sono quindi i lavoratori. Lo Stato congolese poi non fa il suo lavoro. È incapace di proteggere i cittadini e così regna l’impunità». Per questo motivo, uno degli obiettivi per cui padre Didier si sta battendo è riuscire a imporre l’etichettatura elettronica: «Vorremmo avviare un sistema più sicuro, con un sensore in ogni sacco per seguirne l’itinerario. Questo ovvierebbe alla difficoltà di verificare se le etichette corrispondono davvero ai Paesi di produzione».
UN LAVORO RISCHIOSO
Un altro punto su cui de Failly insiste riguarda il Dodd-Frank Wall Street Reform Act, legge statunitense approvata il 21 luglio 2010. Questa legge, al paragrafo n. 1502, parla espressamente dei minerali provenienti dalle zone di conflitto nell’Est del Congo e dai Paesi confinanti, imponendo alle compagnie che commercializzano uno dei quattro minerali strategici provenienti dal Paese africano (tantalio, tungsteno, oro e cassiterite) di rendere pubbliche le fonti e le misure prese affinché i minerali non alimentino il conflitto. La norma ha grandi meriti (tra l’altro, a fine luglio, la Corte distrettuale di Washington ha rigettato il ricorso di alcune lobby che volevano limitarne gli effetti) ma, secondo il gesuita, rischia di avere sui minatori effetti opposti a quelli che si era proposto il legislatore. La Dodd-Frank prevede infatti la possibilità di boicottare le aziende elettroniche che non utilizzano coltan e minerali conflict-free. Il principio in sé è ottimo. Ma siccome la filiera non può essere facilmente garantita, le aziende elettroniche, temendo di perdere clienti, finiscono per rinunciare ai minerali congolesi rivolgendosi ad altri fornitori. A rimetterci sono quindi i congolesi che vivono dell’estrazione. Serve dunque, secondo de Failly, una gradualità nell’applicazione della normativa e un lavoro più efficace per garantire la filiera. Proprio per sensibilizzare su questi temi i vertici delle organizzazioni internazionali, nel 2011 de Failly ha viaggiato molto recandosi a Washington, Bruxelles, Parigi, Berlino.
Padre Didier non lavora però solo a livello internazionale, ma ha molti progetti anche sul terreno: «Inizialmente volevamo diffondere testi in swahili nei quali si parla dei diritti dei minatori. Purtroppo la maggior parte dei minatori è analfabeta. Così abbiamo deciso di selezionare quelli che avevano un minimo di istruzione e li abbiamo formati. Adesso sono loro a formare i loro colleghi. La maggioranza degli abusi poi sono commessi dalle autorità pubbliche. È necessario quindi educare la società civile affinché sia in grado di controllare i funzionari statali. Vorremmo anche realizzare un documentario per mostrare ai responsabili a Kinshasa e in Europa la vera vita dei minatori e le inimmaginabili difficoltà che incontrano». I progetti si scontrano, purtroppo, con la mancanza di fondi. Attualmente ne arrivano dalla Chiesa battista e da un gruppo ebraico, ma non bastano di fronte al molto lavoro da fare.
Le attività di padre de Failly minacciano diversi interessi. «Il mio nome e il mio luogo di lavoro sono stati citati più volte alla radio ruandese, mettendomi così in pericolo». Non solo, è stato accusato di aver passato informazioni all’Onu. Così padre Didier preferisce non entrare più in Ruanda, dove per lui i nemici sarebbero troppo numerosi.
Giusy Baioni