Il popolo congolese non si rassegna

Siamo qui perché il popolo congolese non si rassegna a morire, come farebbe comodo a tanti. Non si rassegna a subire, come tanti vorrebbero. Non si rassegna a tacere, come tanti cercano di imporgli.
Tacere di che? Sopportare che cosa? Morire perché? Secondo i calcoli di International Rescue Committee, dal 1998 ad oggi sono otto milioni e quattrocentomila le persone che sono morte per la guerra nella Repubblica Democratica del Congo, particolarmente nella sua parte orientale.
Morte di uccisioni, morte di stenti nelle foreste o campi di rifugio, morte di mancanza di cure, morte di AIDS perché infettate da eserciti aggressori, morte anche prima di nascere per gli aborti causati dallo scoppio improvviso delle bombe. Migliaia di bambini sono orfani, cresciuti nel terrore, talora arruolati a forza, privati di scuola.
Migliaia di donne che pensavano che la guerra fosse un affare d’uomini, si sono viste bersaglio preciso di guerra, violentate è dir poco, hanno visto il terrore e ogni forma di umiliazione. Migliaia di uomini che vivevano dei loro campi e pensavano che la guerra fosse una questione di eserciti, si sono visti rapiti, costretti ai lavori forzati, a volte stuprati, uccisi, le loro case bruciate, i loro raccolti rubati.
La guerra che i Congolesi dell’est stanno subendo da quasi vent’anni, con alti e bassi, è la fine della pietà, è il calpestamento di ogni diritto, è la forza dell’arma, è l’orgoglio dell’impunità, è la brama delle ricchezze, è la partecipazione a un piano preciso: sgombrare con ogni mezzo il Kivu, l’est della RDCongo, dai suoi abitanti, per fare posto ad altri che già da anni si infiltrano, con la copertura internazionale.
La stessa ONU vive una dissociazione, tra chi, nel settore diritti umani, stende rapporti e chi poi agisce sul terreno e preferisce che quei rapporti non siano conosciuti. Comunque, la verità è chiara e nessuno dei grandi può dire di non sapere. Soltanto che ci sono morti e morti e il peso dell’interesse è inversamente proporzionale al peso della gente che muore.
La RDCongo è un paese malato, perché non s’è mai dato autorità che il popolo abbia veramente scelto. Neppure quando per due volte in questi anni ha creduto di votare. I grandi del mondo scelgono nel segreto anche i capi dei paesi di loro interesse.
E la RDCongo è uno dei paesi che più fa gola: c’è ogni sorta di minerale e specialmente l’80% delle riserve mondiali di coltan, il minerale necessario all’elettronica e all’industria spaziale e militare di punta. C’è oro, diamanti, uranio, rame, petrolio. C’è acqua e il paese si sta enormemente indebitando per costruire nuove faraoniche dighe non per la sua popolazione ma per paesi stranieri, tra cui l’Italia. Ci sono terre e oggi i paesi emergenti ne sono affamati per nutrire una popolazione sempre più esigente. E c’è un popolo schiacciato dalla povertà e dall’ingiustizia, con un manipolo di nuovi ricchi.
Delle concessioni minerarie vengono date con grande perdita per lo Stato, molti minerali escono illegalmente, specialmente nelle zone di guerra. Paesi vicini, il Ruanda e l’Uganda particolarmente, ne sono esportatori a vantaggio di grandi multinazionali. Ai congolesi resta un lavoro pericoloso, un misero guadagno, il taglieggiamento da parte di molteplici capi e l’umiliazione di un prodotto che altri lavoreranno altrove. E la guerra.
Da un anno e mezzo un movimento ribelle, l’M23, semina quotidianamente violenza e morte nel Nord Kivu. I paesi della regione dei Grandi Laghi e la comunità internazionale non cessano di esortare al dialogo. Così, da dieci mesi, a spese del popolo congolese, il dialogo ha luogo proprio in casa di uno dei paesi aggressori, l’Uganda, che fa da facilitatore… dei propri interessi.
Tanti grandi dicono di comprendere, rabbrividiscono di fronte alle storie degli stupri, versano lacrime di coccodrillo per gli arruolamenti forzati, decidono interventi militari per lasciare infine le cose come stanno.
Un giorno, la storia dirà le cose in chiaro. Dirà che con la scusa di piangere il genocidio ruandese del 1994 si sono chiusi gli occhi a ecatombi senza fine che sono avvenute nella regione proprio ad opera del regime che si dice vittima di quel genocidio, un regime estremamente repressivo in patria e destabilizzatore in Congo.
Con la società civile del Nord Kivu chiediamo che la comunità internazionale sanzioni i regimi ruandese e ugandese. La comunità internazionale ha tutti i mezzi per far finire la guerra senza neanche inviare un soldato. Che cosa risponderà un giorno davanti alla storia e davanti a Dio?
Se la politica estera non è giusta, inutile stupirsi se barconi senza fine cercano disperatamente le nostre coste.

Reggio Emilia, Congo Week, 25 ottobre 2013.

Teresina Caffi