Da Wired
Gran parte dell’uranio necessario alla costruzione della bomba fu estratto nell’allora Congo belga, dove la popolazione locale venne ridotta in uno stato di semi-schiavitù
Tempo fa mio padre mi raccontò una storia sull’uranio che alimentò la prima bomba nucleare. Quella sganciata su Hiroshima; uno degli ordigni che si vedono costruire nel film Oppenheimer. Papà è nato nell’ex Congo belga, oggi Repubblica democratica del Congo.
All’inizio dell’estate sono stato invitato a una proiezione del film, a cui era presente anche il regista Christopher Nolan. In una scena ricorrente della pellicola, che simboleggia l’avanzamento lento e graduale degli sforzi degli scienziati, Oppenheimer riempie una ciotola di vetro con delle biglie, prima una alla volta, poi a manciate. Le biglie rappresentano la quantità di uranio che è stata estratta e raffinata con successo allo scopo alimentare la reazione nucleare. L’esito della seconda guerra mondiale e il futuro dell’umanità dipendono da chi riuscirà a creare per primo quel mostro: l’Asse o gli Alleati. Più ci avviciniamo al completamento della bomba, più biglie finiscono nella ciotola. Ma nel film non si fa cenno alla provenienza di due terzi di quell’uranio: una miniera profonda 24 piani nel Katanga, un’area ricca di minerali nel sud-est del Congo.
Mentre sullo schermo le biglie riempivano la ciotola, io continuavo a vedere quello non era rappresentato nel film: i minatori africani che trasportavano terra e pietre per smistare a mano i cumuli di minerale radioattivo.
Papà è nato nel 1946 a Mission Ngi, un piccolo avamposto missionario del Belgio. Ci ha raccontato di come, crescendo, i belgi abbiano insegnato ai congolesi a venerare Dio; di come i belgi si rivolgessero agli adulti congolesi con l’informale tu francese, al posto del formale vous; di come i belgi dicessero che mangiare con le mani, come faceva papà a casa, fosse incivile. Papà ha imparato a scuola che i congolesi erano arretrati e secondari rispetto alla vita moderna. Eppure, diceva papà, i congolesi erano l’ingrediente essenziale, la conditio sine qua non alla base di quella che probabilmente la creazione più importante della storia moderna.
Nel 1885, quando il re Leopoldo II del Belgio rivendicò per la prima volta la proprietà di questa enorme striscia di terra situata sul fiume più profondo del mondo, proprio al centro dell’Africa, la chiamò Stato Libero del Congo. Naturalmente, per i circa 10-20 milioni di abitanti del paese la vita si era ridotta alla sopravvivenza alla violenza e allo stato di terrore del re. In tutto il territorio, trasformato in una serie di piantagioni di cotone e gomma, i soldati del re amputavano gli avambracci dei congolesi che non rispettavano le quote di raccolta previste. Le politiche di Leopoldo II portarono a carestie e malattie. Milioni di persone non ce la fecero.
Nel 1908, quando il governo belga strappò il territorio al re, lo “Stato Libero del Congo” divenne il “Congo Belga”. A quel punto, scrive la storica Susan Williams, autrice di Spies in the Congo, il settore privato si sostituì al sovrano nel ruolo di estrattore delle risorse naturali del Congo. La violenza rimase la stessa. Come se non bastasse, se da una parte lasciavano che i missionari cristiani iniziassero a istruire formalmente i bambini, le autorità belghe erano preoccupate che i congolesi alfabetizzati potessero rovesciare la colonia. Papà mi ha raccontato che la scolarizzazione oltre la quinta elementare era illegale per la maggior parte dei bambini congolesi. Papà, per la gioia di suo padre, avrebbe avuto la possibilità di usufruire di una delle eccezioni della colonia: alle persone che sarebbero diventati sacerdoti l’istruzione era concessa, un’opportunità che nemmeno alcuni fratelli maggiori di papà avrebbero avuto.
Il sistema coloniale formava lavoratori – o meglio, persone al limite della schiavitù – non studiosi. Un ufficiale americano che visitò il Congo belga descrisse la scena che vide il primo giorno: un uomo congolese in pantaloncini stracciati inginocchiato a terra, sovrastato da un ufficiale belga che brandiva una chicote, una frusta di cuoio con punte di metallo: “La frusta fischiava […]. Ogni frustata era seguita da un urlo di agonia […]. Dal collo alla vita, la pelle del nero era una massa di sangue da cui trasparivano le costole”. Questa, riferì l’americano, era la punizione per aver rubato un pacchetto di sigarette a un belga. “Benvenuto in Congo”, fu detto all’ufficiale statunitense.
La caccia all’uranio
La più grande azienda del Congo belga era la società mineraria Union-Minière du Haut-Katanga. Il governo coloniale le aveva concesso i diritti su un’area di circa ventimila chilometri quadrati, più della metà del Belgio. Una delle miniere, Shinkolobwe, era ricca di uranio. A essere precisi, era piena di uranio che i congolesi avevano già estratto e portato in superficie. Inizialmente, l’uranio era solo un prodotto di scarto degli scavi effettuati per cercare il più prezioso radio, la cui scoperta valse il premio Nobel a Marie Curie. Utilizzando l’elemento chimico, nel 1938 i fisici Lise Meitner e Otto Frisch elaborarono i calcoli che definirono la fissione nucleare. Gli scienziati si resero conto che scindendo un numero sufficiente di nuclei era possibile sprigionare enormi quantità di energia. L’uranio era diventato un materiale ambito.
Nel 1939, poco prima dell’inizio della seconda guerra mondiale, Albert Einstein scrisse una lettera al presidente americano Franklin D. Roosevelt, che conteneva un avvertimento sommesso: “L’elemento uranio potrebbe essere trasformato in una nuova e importante fonte di energia nell’immediato futuro […]. È concepibile […] che possano essere costruite bombe estremamente potenti di questo tipo”. La lettera di Einstein menzionava quattro fonti di uranio conosciute: gli Stati Uniti, che “hanno solo minerali molto poveri di uranio in quantità moderate”; il Canada e l’ex Cecoslovacchia, dove “c’è qualche buon minerale”; e il Congo, “la più importante fonte di uranio”. Secondo Jean Bele, un fisico nucleare congolese del Massachusetts Institute of Technology (Mit), da 100 chilogrammi di minerale di uranio congolese era possibile produrre circa un chilogrammo di uranio raffinato. La stessa quantità di minerale proveniente da altre località avrebbe prodotto solo 2 o 3 grammi dell’uranio raffinato necessario per un’arma di questo tipo.
La compagnia mineraria era solita costruire dei complessi recintati che assomigliavano a campi di prigionia per i lavoratori e le loro famiglie; inizialmente l’azienda assegnava a ogni famiglia circa 4 metri quadrati – la dimensione di un piccolo garage – e razioni di cibo settimanali. I minatori selezionavano il minerale di uranio a mano. Una persona ha descritto un pezzo di uranio di Shinkolobwe come un blocco “grande come un maiale”, “nero e dorato, come se fosse ricoperto da una schiuma verde o da muschio”, delle “pietre sgargianti”.
Il direttore dell’Union-Minière du Haut-Katanga era Edgar Sengier, un uomo belga dal colorito pallido e con dei baffi ben tagliati. Avendo visto la Germania invadere il Belgio durante la prima guerra mondiale, Sengier era incerto sulle conseguenze dell’invasione della Polonia da parte di Hitler nel settembre 1939. Il Belgio, o magari le colonie africane, sarebbero state le prossime? Nell’ottobre di quell’anno, Sengier fuggì dal Belgio a New York, dove trasferì le attività commerciali della società mineraria. Prima di insediarsi, però, un chimico britannico e lo scienziato premio Nobel Frédéric Joliot-Curie, genero di Marie Curie, avvisarono Sengier che l’uranio del Congo sarebbe potuto diventare essenziale in guerra. L’autunno successivo, Sengier ordinò di spedirlo a New York.
I lavoratori congolesi trasportarono e caricarono il minerale, che fu inviato via treno a Port Francqui (oggi Ilebo), per poi viaggiare in barca lungo i fiumi Kasai e Congo fino alla capitale Leopoldville (oggi Kinshasa). Al porto di Matadi, l’uranio iniziava il suo viaggio attraverso l’Oceano Atlantico, superando gli U-Boat tedeschi, fino a un magazzino a Staten Island. Sengier stoccò oltre mille tonnellate del minerale negli Stati Uniti. Circa tremila tonnellate rimasero a Shinkolobwe.
Nel maggio 1940, Hitler invase la Francia e il Belgio. Il governo belga fuggì a Londra e il Terzo Reich insediò nel paese un governo filonazista. Il governatore generale del Congo belga, tuttavia, dichiarò che la colonia avrebbe sostenuto gli Alleati. Arruolò truppe, offrì lavoratori congolesi e creò quote di produzione per fornire agli Alleati il materiale bellico necessario. E così, durante la guerra, molti congolesi tornarono nelle stesse foreste in cui i loro genitori e nonni avevano subito l’amputazione delle mani, con l’ordine di raccogliere nuovamente la gomma, questa volta per realizzare centinaia di migliaia di pneumatici militari. Con l’intensificarsi della guerra i minatori congolesi scavavano anche alla ricerca di minerali come il rame, con turni di 24 ore.
Nelle città minerarie di Sengier, come altrove, i congolesi non potevano circolare liberamente senza permessi, né tantomeno votare. Per non incorrere in pesanti conseguenze, i lavoratori dovevano tornare a casa entro le 21. La paga era terribile. Ma nel 1941, nonostante i “nativi” fossero esclusi dai sindacati, i lavoratori neri di alcune miniere di Sengier iniziarono a organizzarsi per ottenere salari più alti e migliori condizioni di lavoro.
Le proteste
Il 7 dicembre 1941 fu un giorno cruciale non solo per il prosieguo della guerra per via dell’attacco a Pearl Harbor, ma anche nella vita dei lavoratori delle miniere congolesi. Quel giorno, i dipendenti neri della Sengier organizzarono un enorme sciopero del settore minerario in tutto il Katanga. A Elisabethville, 500 lavoratori si rifiutarono di iniziare il loro turno. Ben presto, i minatori appena usciti dal servizio si unirono a loro e si radunarono davanti agli uffici della direzione, chiedendo un aumento. Strapparono un accordo che prevedeva una contrattazione il giorno successivo.
La mattina dopo, i lavoratori della miniera si sono presentati allo stadio di calcio locale per negoziare con la società di Sengier e il governatore coloniale del Katanga. Secondo i resoconti, che riportano versioni contrastanti, erano presenti tra gli 800 e i 2000 scioperanti. L’azienda offrì un accordo verbale per un aumento i salari. Uno storico la descrive come la “prima espressione di protesta esplicita nella storia sociale del Congo”. Ma quando un operaio congolese chiamato Léonard Mpoyi chiese una conferma scritta dell’aumento salariale, il governatore coloniale insistette perché la folla tornasse a casa.
“Mi rifiuto – disse Mpoyi –. Dovete darci una prova che l’azienda ha accettato di aumentare i nostri salari”. “Ho già richiesto che andiate in ufficio a controllare”, fu la risposta del governatore, Amour Marron, che poi estrasse una pistola dalla tasca e sparò a Mpoyi, a bruciapelo. Quando i soldati aprirono il fuoco “da tutte le direzioni”, i lavoratori della miniera s riversarono fuori dallo stadio. Circa 70 persone morirono quel giorno. Un centinaio rimase ferita. Il mattino seguente, un altoparlante dell’azienda richiamò tutti al lavoro.
Circa un anno dopo Pearl Harbor, il presidente Roosevelt incaricò il generale Leslie Groves di dirigere il progetto Manhattan. Il suo primo giorno, nel settembre 1942, Groves e il suo vice, il colonnello Kenneth Nichols, discussero di come procurarsi l’uranio necessario per il progetto. Nichols parlò a Groves di Sengier e del suo uranio, e la mattina seguente Nichols lo incontrò nel suo ufficio di New York. Alla fine della riunione i due stilarono un accordo su un blocchetto giallo: “Voglio iniziare a trasportare l’uranio domani”, dichiarò Nichols. Meno di un mese dopo, Groves assunse J. Robert Oppenheimer per costruire la bomba.
Spie e doppio gioco
Nei due anni successivi, il Congo brulicava di spie americane che circolavano nel paese sotto copertura – come “funzionario del consolato”, “impiegato della Texaco”, “acquirente di seta” e “collezionista di gorilla vivi” – ma si trovavano nel paese per assicurarsi che il flusso di uranio procedesse senza intoppi. Il generale Groves insistette affinché gli Stati Uniti ottenessero il controllo completo di Shinkolobwe e raccomandò al presidente Roosevelt di riaprire la miniera. Il Corpo degli ingegneri dell’esercito americano fu inviato in Congo per avviare nuovamente le operazioni minerarie. La posizione della miniera fu cancellata dalle mappe. Alle spie fu detto di eliminare la parola “uranio” dalle loro conversazioni, sostituendola con termini come “diamanti”. I minatori della compagnia iniziarono a estrarre anche altri minerali necessari per la guerra, sgobbando nel sudore di giorno e davanti a immense fornaci di notte. A quel punto, grazie allo sciopero minerario, i salari dei lavoratori erano aumentati del 30-50 per cento. Tuttavia, alcuni uomini erano obbligati a lavorare in miniera. Dal 1938 al 1944, gli incidenti mortali negli stabilimenti dell’azienda furono quasi raddoppiati. Per evitare le quote di gomma, le persone fuggivano dalle zone rurali per raggiungere città come Elisabethville, la cui popolazione africana passò da 26mila persone nel 1940 a 65mila nel 1945.
Ma il governo statunitense era preoccupato anche dalle spie naziste. Una spia americana fu incaricata di scoprire se i nazisti contrabbandavano uranio di Shinkolobwe. Uno dei numerosi carichi del minerale di Sengier fu intercettato e affondato dal Reich.
Una volta arrivate negli Stati Uniti, le “pietre sgargianti” venivano raffinate in luoghi come Oak Ridge, nel Tennessee, e poi spedite a Oppenheimer a Los Alamos, nel Nuovo Messico. Oppenheimer e il suo team impiegarono quasi tre anni per sviluppare le bombe. Anche se i tedeschi si arresero nel maggio 1945 (e fu chiaro che non erano vicini al completamento di una bomba nucleare), la guerra nel Pacifico proseguiva. Alla fine, nell’agosto 1945, gli Stati Uniti sganciarono due bombe su Hiroshima e Nagasaki, la prima delle quali era riempita di uranio congolese, come diceva papà.
Jean Bele, il fisico nucleare, mi dice che oggi gli isotopi radioattivi sono ancora nel terreno vicino a Shinkolobwe: “I rifiuti solidi radioattivi entrano nell’acqua, nelle colture, negli alberi, nel suolo, negli animali e arrivano agli esseri umani”, spiega. Non conosciamo l’entità delle radiazioni. Sappiamo che a Oak Ridge la mortalità per cancro è aumentata. E che nei pressi di St. Louis, nel Missouri, dove venivano scaricati i resti dei minerali congolesi, la contaminazione comporterà dei rischi per i lavoratori per i prossimi mille anni.
Dopo la proiezione di Oppenheimer, come un fan qualsiasi, ho avvicinato Nolan nella hall. Sono riuscito a chiedergli delle biglie, del perché le abbia scelti e di quale problema creativo abbiano risolto. Il regista ha risposto con un cenno cortese: “Avevo bisogno di un modo per dimostrare quanto tempo ci sarebbe voluto per raffinare tutto quel minerale”. Poi ha aggiunto: “Il numero di biglie era in realtà matematicamente calcolato per rappresentare la quantità necessaria”.
Senza il Congo ovviamente ottenere tutto quel minerale sarebbe stato impossibile. Nella corsa alla costruzione della bomba, entrambe gli schieramenti volevano il minerale congolese. Secondo il colonnello Nichols, la miniera di Shinkolobwe è stata “un caso anomalo in natura”: “Non è mai stato trovato nulla di simile”. E questo, ovviamente, significa che senza i lavoratori neri del Congo, terrorizzati e costretti alla sottomissione e a estrarre minerali bellici essenziali 24 ore al giorno, l’esito di quello che probabilmente è il progetto più importante della storia dell’umanità sarebbe stato molto diverso.
Nel 1946, Sengier divenne il primo non americano a ricevere la medaglia al merito, assegnata dal presidente degli Stati Uniti per riconoscere “un atto eccezionalmente meritorio o coraggioso”, in questo caso quello che sancì la vittoria degli Alleati. In una foto della cerimonia, c’è chi però potrebbe vedere anche qualcos’altro: un uomo con qualcosa da nascondere. I servizi segreti durante la guerra rivelarono che la società di Sengier aveva venduto ai nazisti circa 1,5 milioni di chili di uranio congolese. Nel 1948, un minerale radioattivo fu ribattezzato in onore di Sengier: sengierite.
Allo stesso tempo, i congolesi, il popolo da cui discendo, iniziarono ad abbattere i sistemi coloniali che li opprimevano. Nel 1960 ottennero l’indipendenza. All’epoca papà aveva 13 anni e, anche se ci sarebbero voluti anni prima di conoscere la storia dei minatori di uranio, ha sempre saputo che il popolo congolese ha un posto importante nella storia.
Ngofeen Mputubwele