WASHINGTON — Fare da interprete in un altro linguaggio ti prosciuga emotivamente. Come interprete temo di perdere le sfumature, distorcere il messaggio e tradire sia l’oratore che il pubblico. Negli anni ho sentito le mie sessioni di interpretariato come esperienze extracorporee, che richiedono tutte le mie facoltà. Spesso ricordo poco degli scambi, come se non avessi partecipato.
Tuttavia mai prima d’ora ero stato eviscerato come quando ho accompagnato Mathilde Muhindo Mwamini a Washington D.C. nel suo viaggio di sensibilizzazione a favore delle sopravvissute agli stupri di massa del Congo.
Ho incontrato Muhindo al suo arrivo al Reagan National Airport dopo un lungo viaggio da Kinshasa, la capitale del Congo. Anche se avevo parlato con lei al telefono parecchi giorni prima non sapevo che aspetto avesse. Nella mia corsa per l’aeroporto avevo dimenticato di preparare un cartello di benvenuto. Piuttosto smarrito, guardavo tutti i passeggeri che uscivano dal cancello degli arrivi. “Sicuramente vedrò lo sguardo perplesso sul suo volto” mi dicevo. “Non ti preoccupare, lo saprai”. Mi aspettavo una anziana, incerta e confusa donna congolese, insicura della sua direzione. Non ho trovato nessuna tale passeggera.
Il mio sguardo si incrociò con quello di una donna sicura di sé, dignitosa e ben vestita che sembrava sapere esattamente dove era diretta. Mi sorrise.
“Mathilde Muhindo, je présume!”
“Oui, certainement!” fu la risposta.
“Enchanté de faire votre connaissance, madame!”. Questo fu il mio incontro con Muhindo, l’efficiente attivista sociale che ha aiutato innumerevoli sopravvissute agli stupri di massa in Sud Kivu, l’epicentro dei recenti sanguinosi conflitti del Congo. Il legame è stato immediato.
Ospite di En Avant Congo!, un’associazione di volontariato formata da congolesi ed americani preoccupati dalla discesa agli inferi del Congo, il suo obiettivo era semplice — aumentare la consapevolezza di governo e pubblico statunitense sulla caotica situazione nel suo paese. Dall’ultimo round di combattimenti cominciato cinque anni fa, più di 3,8 milioni di congolesi sono morti, su una popolazione di 60 milioni; alcuni di loro combattenti, ma la maggior parte gente innocente. Negli Stati Uniti equivarrebbe all’11 settembre che accade ogni giorno per tre anni consecutivi. Nessun altro conflitto dalla seconda guerra mondiale ha causato tante vittime. Il giogo del Congo è troppo pesante da sopportare per qualsiasi nazione. Muhindo è venuta a Washington per parlare dell’indicibile.
A Capitol Hill, la prima stazione della sua via dolorosa, procede con matronale serenità condita da una determinazione incrollabile. Vestita con i tradizionali maputa e libaya congolesi, la 52enne assistente sociale diventata attivista politica sembra 10 anni più giovane. Dopo la calda e cordiale presentazione di benvenuto, un silenzio assordante sale nella maestosa sala conferenze mentre i membri anziani del sottocomitato del Congresso per l’Africa aspettano impazienti le sue parole. “Vi ringrazio per aver trovato il tempo di incontrarmi. È un piacere essere qui”, comincia Muhindo. “Mentre vi parlo, in questo preciso momento, la mia città di Bukavu è sotto assedio. C’est vraiment la providence qui me permet d’être ici. …”.
Per 15 giorni la scorsa estate Bukavu è stata teatro di pesanti combattimenti tra i fedelissimi del governo e le truppe tutsi ammutinate sostenute dal Ruanda. Il leader rinnegato Laurent Nkunda, un ex ufficiale dell’esercito ruandese, ha affermato di agire per prevenire il genocidio contro i cosiddetti Banyamulenge, o tutsi congolesi. Sia gli Stati Uniti che le Nazioni Unite hanno respinto tale pretesa adducendo la mancanza di prove, e definendo la dichiarazione irresponsabile ed infiammatoria.
Gli ammutinati hanno saccheggiato e depredato Bukavu, distruggendo sistematicamente il tessuto economico locale e dando alle fiamme quello che non potevano prendere. La città sanguinava mentre violentavano porta a porta, casa per casa. Gli analisti temevano che le ostilità fossero il segnale del terzo capitolo della guerra che aveva portato il defunto presidente Laurent-Desire Kabila al potere nel 1997.
Nel 1998, dopo che Kabila era caduto in disgrazia con i suoi sostenitori in Uganda e Ruanda, questi due paesi hanno invaso il Congo nel tentativo di rovesciarlo. Seguì una guerra multinazionale, con Angola, Zimbabwe e Namibia che intervennero dalla parte di Kabila. Non riuscendo a spodestare Kabila, Ruanda ed Uganda scelsero di sostenere una rivolta nel Congo orientale. Per i civili nel Kivu la ribellione ha introdotto atrocità apocalittiche.
Muhindo ha assistito all’effetto di queste atrocità in prima persona. Come direttrice del Centro Olame, un’organizzazione di empowerment femminile a Bukavu, ha aperto il primo consultorio per gli stupri del Sud Kivu nel 2001. “Le donne e le ragazze stanno pagando a caro prezzo per la guerra in Congo”, continua Muhindo. “La violenza sessuale nelle province orientali dovrebbe essere considerata nel suo giusto contesto — una guerra nella guerra. Una guerra contro le donne”.
A seguito del collasso dell’autorità dello stato dopo la guerra multinazionale del 1998, il Congo orientale è diventato una vera terra senza legge, divisa tra vari gruppi armati. Muhindo stima che circa una dozzina di milizie improvvisate e bande armate rivaleggino per il controllo della regione e delle sue ricchezze naturali.
Come ogni altra società al mondo, il Congo ha avuto i suoi casi di stupro tradizionali. Tuttavia nel 1998 le milizie hanno adottato lo stupro come arma di guerra. “L’FDLR, il gruppo ribelle ruandese, e l’RCD (sostenuto dal Ruanda) sono i più feroci”, dice, “ma tutte le parti sono colpevoli di abusi contro le donne”. Forte di quindicimila uomini, l’FDLR comprende i resti del vecchio esercito ruandese prima del genocidio e l’infame Interahamwe. L’Iterahamwe hutu è responsabile dal 60 al 70 percento di questi stupri. Il resto è diviso tra le altre milizie.
Alcuni dei combattenti dell’FDLR sono stati accusati di aver ucciso 800.000 dei loro connazionali ruandesi nel 1994. La loro presenza nella regione e la minaccia che rappresentano hanno fornito all’esercito ruandese un motivo sufficiente per invadere il Congo orientale. Eppure sette anni di coinvolgimento del Ruanda in Congo hanno solo esacerbato la già precaria situazione nella regione dei Grandi Laghi, senza produrre nessuna sicurezza per il Ruanda.
L’RCD è principalmente una coalizione di milizie tutsi sostenuta dal Ruanda per promuovere i propri interessi in Congo. Sono stati pesantemente coinvolti nello sfruttamento illegale delle risorse naturali.
Secondo Human Rights Watch, le forze RCD hanno più volte massacrato centinaia di civili, che accusavano di sostenere le milizie locali che si oppongono al loro controllo del Congo orientale. Molte organizzazioni civiche sono ancora attive in quelle regioni, ma l’RCD utilizza arresti arbitrari, maltrattamenti durante la detenzione e la tortura per spaventarle fino alla sottomissione. Alcuni dei loro presunti nemici sono “scomparsi” e si presume siano morti.
Nel 2003 un gruppo di esperti dell’ONU sullo sfruttamento illegale delle risorse naturali accusò sia il Ruanda che l’Uganda di prolungare la guerra civile in modo da poter dirottare illegalmente le ricchezze del Congo, con l’aiuto di grandi aziende occidentali. Mentre né l’Uganda né il Ruanda possiedono depositi significativi di oro, diamanti e coltan, entrambi i paesi sono diventati importanti esportatori di questi minerali.
“Non abbiamo mai visto nulla di simile prima”, spiega Muhindo. “Non è solo lo stupro. Sono le atrocità che l’accompagnano”. Fa una pausa. “Troverete i casi più estremi all’ospedale di Panzi a Bukavu. I ribelli sparano alle donne nei genitali dopo averle violentate. Giovani ragazze con gli organi lacerati rimangono sdraiate con le gambe penzoloni. … Vanno a Panzi per la chirurgia ricostruttiva. Alcune di queste bambine hanno bisogno di tre o quattro interventi”. Con le lacrime che le rigano le guance, sospira. “Je ne sais pas si vous me comprenez; c’est incroyable ce qui nous arrive”. Non so se mi comprendete; quello che ci sta succedendo è incredibile.
Le statistiche raccontano una storia terribile. Due volte la dimensione del Maryland, il Sud Kivu ha registrato più di 25.000 casi fino ad oggi. Nel 2003, il Centro Olame ha fornito assistenza a 1.256 vittime. Alcune di queste vittime erano state violentate molti mesi prima, ma non avevano avuto il coraggio o i mezzi per chiedere aiuto. Il sesso è un argomento tabù nella cultura locale.
Asciugandosi le lacrime, Muhindo parla delle difficoltà delle vittime. “Le donne perdono su tutti i fronti. Prima c’è lo stupro. Poi arriva il rifiuto da parte del marito, che spesso non vuole avere niente a che fare con lei”. Scuote la testa. “Infine, è emarginata da tutta la comunità. Le vittime sono abbandonate al loro destino”.
La provincia vicina del Maniema ha registrato 11.350 casi. “Questa è la punta dell’iceberg. La maggior parte delle vittime non hanno accesso alle cure. Non vi è alcun centro di assistenza al di fuori di un raggio di 45 chilometri intorno a Bukavu. Vivono troppo lontano in campagna. Hanno paura di essere violentata sulla strada per il centro”.
Le urla delle vittime riecheggiano nella sala mentre Muhindo racconta la disumanità di questi crimini. I miliziani spesso violentano le donne di fronte alle loro famiglie, uccidendo i mariti che cercano di proteggere le loro mogli. Hanno tagliato la gola a bambini piangenti che interferivano con l’atto. Per un maggiore impatto, costringono i ragazzi a violentare le loro stesse madri.
“Questi selvaggi lacerano il tessuto stesso della vita. È la distruzione totale della famiglia e della comunità”, lamenta Muhindo. Il tasso di infezione da HIV ed AIDS nella regione è aumentato dal 3 per cento del 1996 ad oltre il 17 per cento nel 2003. “È la morte — lenta, ma sicura”.
Un membro dello staff del Congresso con le lacrime agli occhi chiede: “Che cosa possono fare gli Stati Uniti per aiutare?”. Oltre i suoi compiti al centro, Muhindo è anche un membro del parlamento di transizione dove rappresenta la società civile del Sud Kivu. È una delle 68 donne tra i 600 membri del parlamento. “Cosa possono fare gli Stati Uniti per aiutare?” ripete a se stessa.
“I nostri problemi sono politici e meritano soluzioni politiche”, comincia Muhindo. “Viviamo in uno stato di totale impunità. Non c’è nessuna autorità del governo centrale. Nessun sistema giudiziario. Queste atrocità continueranno fino a quando i responsabili non affronteranno nessuna conseguenza”.
Il collasso dell’autorità statale ha lasciato un vuoto di sicurezza che le milizie ed altri gruppi armati e banditi sono stati pronti a riempire. L’anarchia è lo stile di vita normale nel Congo orientale. Quelli con le armi hanno diritto di vita e di morte sui civili indifesi.
Il paese ha bisogno di una polizia ed un esercito ben addestrato ed unificato per garantire la sicurezza. “I dipendenti pubblici non sono pagati e vivono alle spalle della gente”, aggiunge Muhindo. “Fino a quando non saranno operativi un esercito professionale ed una polizia nazionale, non conosceremo la pace. Non c’è tregua per le donne. Nessun ricorso legale”.
Con gli alleati europei, gli Stati Uniti possono aiutare ad addestrare le forze di sicurezza e la polizia. Ad oggi, solo il Belgio si è impegnato ad istruire l’indispensabile esercito professionale.
Le operazioni ruandesi in Congo per schiacciare l’FDLR sono un fallimento sia militare che politico. Invece della pace, queste operazioni hanno generato saccheggi, rapine, stupri e omicidi di massa da parte delle truppe ruandesi, dei loro delegati e di altri gruppi armati, minando alla base le argomentazioni del Ruanda per aver invaso il suo vicino.
Il governo di Kigali dovrebbe investire di più per una soluzione politica dei suoi rapporti con l’FDLR. Il Ruanda dovrebbe creare l’ambiente adeguato, che incoraggi più combattenti e altri dissidenti a tornare a casa; i genocidari affronterebbero la giustizia, mentre il resto di loro si reinserirebbero nella società.
Muhindo spiega: “Questi uomini sono intrappolati. La loro disperazione li ha trasformati in selvaggi senza un posto dove andare. Uccidono, saccheggiano e stuprano. Il Congo paga un prezzo durissimo per i problemi del Ruanda”.
“Il ciclo di violenza in Congo orientale è alimentato dal traffico di armi. Gli Stati Uniti dovrebbero sostenere pienamente e contribuire a far rispettare l’embargo delle Nazioni Unite sul flusso di armi in Congo”, Muhindo racconta al suo pubblico. “Chiedo al governo degli Stati Uniti di ripristinare il proprio embargo bilaterale sulle armi a Ruanda ed Uganda, le principali fonti del flusso di armi nel mio paese”.
“Il governo degli Stati Uniti dovrebbe ripristinare il proprio embargo bilaterale sulle armi a Ruanda ed Uganda, fino a quando non metteranno fine al flusso di armi che attraverso i loro paesi arriva in Congo. Il Congresso degli Stati Uniti dovrebbe condizionare l’assistenza bilaterale ad entrambi questi paesi alla cessazione del supporto per qualsiasi fazione in Congo, che sia attraverso i trasferimenti di armi, l’assistenza finanziaria, la consulenza militare, l’addestramento militare, o la protezione di coloro che fuggono il governo nazionale congolese”.
Gli Stati Uniti hanno revocato l’embargo sul Ruanda nel luglio 2003. Questa azione incide negativamente sul processo di pace perché le armi continuano a fluire nel Congo orientale. Con questa proliferazione di armi, il già zoppicante governo congolese non è in grado di mettere in sicurezza i suoi confini con il Ruanda e l’Uganda. Di conseguenza, i due paesi hanno usato l’insicurezza al confine come pretesto per invadere Congo.
Dopo una lunga giornata a Capitol Hill, scorto Muhindo a Mount Pleasant, uno dei quartieri culturalmente diversi di Washington. “Possiamo entrare qui?”, domanda. La sua richiesta mi spiazza. Nel loro tempo libero, i visitatori stranieri di solito vogliono vedere il National Mall o magari andare a fare shopping. Muhindo ha un’idea diversa.
“Je voudrais voir le type de poignets et serrures et qu’ils ont ici”, mi dice. Vorrebbe vedere che tipo di maniglie e serrature vende il negozio di ferramenta. Sono sconcertato. “Perché ha bisogno di maniglie e serrature?” mi domando. “Sicuramente le può trovare in Congo”.
“Posso vedere quella serratura laggiù?” chiede al proprietario del negozio, indicando una serratura robusta. “Ha qualcosa che va bene per porte esterne di vetro?”. Metodicamente confronta diverse serrature e maniglie, sentendo il loro peso e controllando i prezzi. Spera di trovare qualche buona serratura per la sua sicurezza domestica.
“Ho sentito di un caso di stupro in cui i miliziani hanno sparato 40 proiettili per rompere una serratura. Immaginate quanto sia spaventoso”, dice semiseria. “So che queste serrature non fermeranno nessuno dall’introdursi in casa mia, ma spero che possano ritardare il loro ingresso”.
Nelle sue attività di sensibilizzazione Muhindo ha viaggiato in diversi paesi europei. Ha incontrato potenti ambasciatori e ministri. A Washington ha incontrato il sottosegretario di Stato per i diritti umani e camminato per i corridoi del Congresso degli Stati Uniti, la legislatura più potente del mondo.
Eppure Muhindo rimane radicata alla sua realtà; il Kivu è un luogo violento. I combattimenti recenti nella sua città natale di Bukavu hanno inviato un messaggio chiaro. Gli stupri di massa e l’insicurezza rimangono la sorte quotidiana dei civili. Ci vorrà un po’ prima che la pace torni nel Congo orientale. Fino ad allora non prenderà rischi. Muhindo è vulnerabile come le vittime indifese che ospita al Centro Olame.
Mvemba Phezo Dizolele
Tearing Congo’s womb
WASHINGTON — Interpreting into another language is emotionally draining. As an interpreter, I worry I might miss the nuances, distort the message and fail both the speaker and the audience. Over the years, my interpreting sessions have felt like out-of-body experiences, which summon all of my faculties. Often I remember little of the exchanges, as if I did not participate.
However, never before have I been eviscerated as I was when I accompanied Mathilde Muhindo Mwamini on her Washington, D.C., advocacy tour on behalf of Congo’s mass rape survivors.
I met Muhindo on her arrival at Reagan National Airport after a long trip from Kinshasa, Congo’s capital. Though I had spoken with her on the phone several days earlier, I did not know what she looked like. In my rush to the airport, I forgot to make a welcome sign. Somewhat at a loss, I scanned all the passengers coming out through the arrival gate. “Surely, I will see the puzzled look on her face,” I said to myself. “Don’t worry, you will know.” I expected an older, unsure and confused Congolese woman, uncertain of her whereabouts. I found no such passenger.
My eyes locked with those of a confident, dignified and well-dressed woman who seemed to know exactly where she was headed. She smiled at me.
“Mathilde Muhindo, je présume!”
“Oui, certainement!” came the reply.
“Enchanté de faire votre connaissance, madame!” Such was my encounter with Muhindo, the no-nonsense social activist who has helped countless mass rape survivors in South Kivu, the epicenter of Congo’s recent bloody conflicts. The bond was instant.
A guest of En Avant Congo!, a voluntary association of Congolese and Americans concerned about Congo’s descent into hell, her goal was simple — to raise awareness in the U.S. government and public of the chaotic situation in her country. Since the last round of fighting started five years ago, more than 3.8 million Congolese have died out of a population of 60 million; some of them fighters, but most innocent people. In the United States, that would amount to Sept. 11 happening every day for three consecutive years. No other conflict since World War II has claimed so many victims. Congo’s yoke is too heavy for any nation to bear. Muhindo came to Washington to speak of the unspeakable.
On Capitol Hill, the first station on her via dolorosa, she treads with matronly serenity peppered with unshakable determination. Clad in the traditional Congolese maputa and libaya, the 5 foot 3 inches, 52-year-old social worker turned political activist, looks 10 years younger. After the warm and heartfelt welcoming introduction, a deafening silence rises in the majestic conference room as the senior staffers from the Congressional Subcommittee on Africa eagerly wait for her words. “Thank you for making the time to see me. It’s a pleasure to be here,” Muhindo starts. “As I speak to you at this very moment, my hometown of Bukavu is under siege. C’est vraiment la providence qui me permet d’être ici. …”
For 15 days last summer, Bukavu was the scene of heavy fighting between government loyalists and mutinying Tutsi troops supported by Rwanda. Renegade leader Laurent Nkunda, a former officer in the Rwandan Army, claimed he acted to prevent genocide against the so-called Banyamulenges, or Congolese Tutsis. Both the United States and the United Nations rejected that claim, citing the lack of evidence and called the declaration irresponsible and inflammatory.
Mutineers looted and pillaged Bukavu, systematically destroying the local economic base and setting ablaze what they could not take. The city bled as they raped door-to-door, house-to-house. Analysts feared the hostilities signaled the third installment in the war that brought the late president Laurent-Desire Kabila to power in 1997.
In 1998, after Kabila fell out of grace with his backers in Uganda and Rwanda, these two countries invaded Congo in an attempt to overthrow him. A multinational war followed, with Angola, Zimbabwe and Namibia intervening on Kabila’s side. Unable to unseat Kabila, Rwanda and Uganda chose to support a rebellion in eastern Congo. For the civilians in Kivu, the rebellion ushered apocalyptic atrocities.
Muhindo has witnessed the effect of these atrocities firsthand. As the director of Centre Olame, a women’s empowerment organization in Bukavu, she opened South Kivu’s first rape counseling center in 2001. “Women and girls are paying dearly for the war in Congo,” Muhindo continues. “Sexual violence in eastern provinces should be seen in its proper context — a war within a war. A war against women.”
Following the breakdown of state authority after the 1998 multinational war, eastern Congo became a virtual lawless land divided among various armed groups. Muhindo estimates about a dozen ragtag militias and armed gangs vie for control of the region and its natural riches.
Like any other society in the world, Congo has had its traditional rape cases. However, in 1998 militias adopted rape as a weapon of war. “FDLR, the Rwandan rebel group, and the Rwanda-backed RCD are the most vicious,” she says, “but all parties are guilty of abuses against women.” Fifteen thousand-men strong, the FDLR includes the remnant of the old Rwandan Army before the genocide and the infamous Interahamwe. The Hutu Interahamwe is responsible for 60 to 70 percent of these rapes. The rest is split among the other militias.
Some of the FDLR fighters have been accused of killing 800,000 of their fellow Rwandans in 1994. Their presence in the region and the threat they present provided Rwanda’s army with justifiable grounds to invade eastern Congo. Yet, seven years of Rwanda’s involvement in Congo has only exacerbated the already tenuous situation in the Great Lakes region, and has yielded no security for Rwanda.
The RCD is mostly a collection of Tutsi militias backed by Rwanda to further its interests in Congo. They have been heavily involved in the illegal exploitation of natural resources.
According to Human Rights Watch, RCD forces have on several occasions massacred hundreds of civilians, whom they accused of supporting local militias opposed to their control in eastern Congo. Many civic organizations are still active in those regions, but the RCD uses arbitrary arrest, ill treatment in detention, and torture to frighten them into submission. Some of their alleged enemies have “disappeared” and are presumed dead.
A 2003 UN Panel of Experts on the Illegal Exploitation of Natural Resources accused both Rwanda and Uganda of prolonging the civil war so that they could illegally siphon off Congo’s wealth with the help of Western corporations. While neither Uganda nor Rwanda have gold, diamond or coltan deposits of significance, both countries have become important exporters of these minerals.
“We have never seen anything like this before,” Muhindo explains. “It is not just rape. It is the atrocities that go with it.” She pauses. “You will find the most extreme cases at Panzi hospital in Bukavu. Rebels shoot women in their genitals after they had their way. Young girls with torn organs lay down with their legs hanging. … They go to Panzi for reconstructive surgery. Some of these little girls need three or four interventions.” With tears streaming down her cheeks, she sighs. “Je ne sais pas si vous me comprenez; c’est incroyable ce qui nous arrive.” What’s happening to us is unbelievable; I am not sure you understand.
The statistics tell a gruesome story. Twice the size of Maryland, South Kivu has registered more than 25,000 cases to date. In 2003, Centre Olame provided counseling care to 1,256 victims. Some of these victims had been violated many months prior, but did not have the courage or means to seek help. Sex is a taboo subject in the local culture.
Wiping her tears, Muhindo talks about the victims’ plight. “Women lose on all fronts. First, it’s rape. Then comes the rejection by the husband, who often wants nothing to do with her.” She shakes her head. “Finally, she is shunned by the whole community. Victims are abandoned to their own fate.”
Neighboring Maniema province has registered 11,350 cases. “That’s the tip of the iceberg. Most victims do not have access to treatment. There is no care center outside the 45-kilometer radius around Bukavu. They live too far out in the countryside. They are afraid to be raped on their way to the center.”
The victims’ screams echo across the room as Muhindo tells of the inhumanity of these crimes. Militiamen often rape women in front of their families, killing husbands who try to protect their wives. They slit throats of crying babies interfering with the act. For a greater impact, they force boys to rape their own mothers.
“These savages tear the very fabric of life. It’s the total destruction of the family and the community,” Muhindo laments. HIV and AIDS infection rate in the region has increased from 3 percent in 1996 to over 17 percent in 2003. “It’s death — slow, but certain.”
One teary-eyed congressional staffer asks, “What can the United States do to help?” Besides her duties at the rape center, Muhindo is also a member of the transitional parliament where she represents South Kivu’s civil society. She is one of 68 women in the 600-member parliament. “What can the United States do to help?” She repeats to herself.
“Our problems are political and deserve political solutions,” Muhindo begins. “We live in a state of total impunity. There is no central government authority. No judicial system. These atrocities will continue as long as the perpetrators face no consequences.”
The collapse of state authority has left a security vacuum that militias and other armed groups and bandits have been quick to fill. Anarchy is the normal way of life in eastern Congo. Those with guns have the right of life and death over hopeless civilians.
The country needs a well-trained, unified army and police to ensure security. “Civil servants have not been paid and live off the people,” Muhindo adds. “Until a professional army and national police are in place, we will not know peace. There is no reprieve for women. No legal recourse.”
Along with its European allies, the United States can help train security forces and the police. To date, only Belgium has committed to training the much-needed professional army.
Rwanda’s operations in Congo to squash the FDLR amount to a failure both militarily and politically. Instead of peace, these operations have generated looting, plundering, rape and mass-murder by Rwandan troops, their proxies and other armed groups, effectively undermining Rwanda’s argument for invading its neighbor.
The government in Kigali should invest more in a political solution in its dealings with the FDLR. Rwanda should create the proper environment, which would encourage more fighters and other dissidents to return home; the génocidaires would face justice while the rest of them reintegrate society.
Muhindo explains. “These men are trapped. Their despair has turned them into savages with nowhere to go. They kill, loot and rape. Congo pays a stiff price for Rwanda’s problems.”
“The cycle of violence in eastern Congo is fed by arms trafficking. The United States should fully support and help enforce the U.N. embargo on the flow of arms into Congo,” Muhindo tells her audience. “I call on the U.S. government to reinstate its own bilateral arms embargo on Rwanda and Uganda, the main sources of arms flow into my country.
“The U.S. government ought to reinstate its own bilateral arms embargo on Rwanda and Uganda, until they put an end to arms flowing through their countries into Congo. The U.S. Congress should condition bilateral assistance to both of these countries on their cessation of support for any factions in Congo, whether through arms transfers, financial assistance, military advising, military training, or harboring of those who flee the Congolese national government.”
The United States lifted the embargo on Rwanda in July 2003. This action negatively affects the peace process as weapons continue to flow into eastern Congo. With this proliferation of arms, the already crippled Congolese government is unable to secure its borders with Rwanda and Uganda. As a result, the two countries have used border insecurity as a pretext to invade Congo.
After a long day on Capitol Hill, I escort Muhindo to Mount Pleasant, one of Washington’s culturally diverse neighborhoods. “Can we go in here?” she inquires. Her request puzzles me. In their spare time, foreign visitors usually want to see the National Mall or perhaps go shopping. Muhindo has a different idea.
“Je voudrais voir le type de poignets et serrures qu’ils ont ici,” she tells me. She would like to see what type of knobs and locks the hardware store carries. I am baffled. “Why does she need knobs and locks?” I wonder. “Surely, she can get that in Congo.”
“May I see that lock over there?” She asks the store owner, pointing to a sturdy safety lock. “Do you have anything that works for exterior glass doors?” Methodically, she compares various locks and knobs, feeling their weights and checking their prices. She is hoping to find a few decent locks for her home security.
“I heard of a rape incident where the militiamen fired 40 bullets to break a lock. Imagine how scary that is,” she says, half in jest. “I know these locks will not stop anyone from intruding my home, but I hope they can delay their entrance.”
In her advocacy efforts, Muhindo has traveled to several European countries. She has visited with powerful ambassadors and ministers. In Washington, she met with the assistant secretary of State for human rights and walked the hallways of the U.S. Congress, the world’s most powerful legislature.
Yet Muhindo remains grounded in her reality; Kivu is a violent place. The recent fighting in her hometown of Bukavu sent a clear message. Mass rapes and insecurity remain the daily lot of civilians. It will be a while before peace returns to eastern Congo. Until then, she will take no chances. Muhindo is as vulnerable as the helpless victims she shelters at Centre Olame.
Mvemba Phezo Dizolele